Anna (2024), di Monica Guerritore

Anna (2024), di Monica Guerritore

Ci sono film che arrivano come un passo felpato sull’uscio, senza bussare, e poi spalancano il ricordo di una donna che pensavamo di conoscere. Anna di Monica Guerritore fa esattamente questo: entra piano, autorevole, e ci restituisce la voce segreta di Anna Magnani, la donna prima dell’icona, la madre prima dell’attrice, la creatura viva sotto le fotografie in bianco e nero che abbiamo consumato negli anni.

Guerritore non interpreta Magnani: la accompagna. Le siede accanto. Le presta lo sguardo in una notte precisa, quella del 1956, quando l’Oscar per La rosa tatuata irrompe nella sua vita come un lampo che illumina anche le crepe. Da lì il film si apre come una stanza rimasta chiusa troppo a lungo: odore di mare, velluto che scolora, passi nel corridoio, le rughe non come difetto ma come mappa del cammino.

Un omaggio? No. Una restituzione.

Anna (2024), di Monica Guerritore
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La donna dietro il mito

Guerritore sceglie di seguire le pieghe intime della Magnani, quelle che raramente trovano casa nei discorsi ufficiali. Così, tra le righe del film, emergono i passaggi che la vita non le ha risparmiato:
– la malattia del figlio Luca, una notizia che incrina ogni certezza;
– il rapporto irrisolto con Roberto Rossellini, presenza costante proprio perché capace di essere assenza;
– gli amici che, uno dopo l’altro, si allontanano quando le luci si abbassano;
– il cinema che cambia pelle, cedendo il passo al culto del regista più che all’attore.

Tutto questo viene narrato senza strattoni, con una tenerezza che non scivola mai nella malinconia compiaciuta. Guerritore racconta Magnani come la donna che «non ha mai avuto altra scelta», una frase che nel film vibra come una dichiarazione d’intenti: la forza non come dono eroico ma come unico modo per restare vivi.

Il risultato, sullo schermo, è un ritratto in cui la fragilità diventa movimento, non limite. Una Magnani madre che corre verso un figlio in pericolo riecheggia la Pina di Roma città aperta: è come se Guerritore cucisse insieme due vite, quella cinematografica e quella reale, per mostrare il punto esatto in cui l’arte e la carne coincidono.

Rossellini, amore altrove

Una delle intuizioni più felici del film è Rossellini interpretato da Tommaso Ragno. Non un fantasma, non un colpevole, ma un uomo “altrove”: ingombrante, magnetico, incapace di restare. Un amore che fa più rumore nei silenzi che nei ritorni.

Guerritore lo mette in scena come figura che sfugge di continuo, e proprio per questo pesa. Non lo carica di accuse, non lo nobilita: lo osserva. E nel farlo illumina la capacità di Magnani di restare fedele a sé stessa anche quando il cuore le si sposta dentro.

Uno degli aspetti più luminosi del film è la scelta di non addolcire né filtrare il volto di Magnani. Lo racconta con la dignità che lei stessa rivendicava quando diceva: «Sono io, non dovete trasfigurarmi» .

Guerritore fa della pelle un archivio, non un limite estetico. Quelle linee segnate diventano partitura di una vita vissuta a volume alto, senza la tentazione di compiacere. La sua Anna, infatti, non è mai vittima delle etichette: è libera, verace, testarda, capace di presidiare il proprio mestiere come un territorio sacro.

Suso Cecchi D’Amico e le altre donne che la sorreggono

In un libro di storia del cinema, le donne attorno a Magnani compaiono spesso in nota. Guerritore le porta in primo piano:
Suso Cecchi D’Amico, l’amica vera, la voce che non edulcora;
Carla Levi, ventiquattrenne che si trasforma nella sua ombra e poi nella più brillante agente cinematografica italiana;
– Ingrid Bergman, qui interpretata dalla figlia della regista, Lucia, quasi un passaggio simbolico tra generazioni di donne dello schermo.

Attraverso di loro il film racconta un’epoca in cui lo splendore era spesso maschile, ma la tenuta emotiva aveva nomi di donna.

Una regia che non imita, evoca

Guerritore non tenta la ricostruzione museale. Non cerca il mimetismo. Lavora per intuizioni, sottrazioni, brevissimi tocchi:
– una tazza appoggiata con più forza del necessario,
– una corsa improvvisa,
– un silenzio che pesa quanto una battuta.

È una regia che “ascolta” Magnani invece di ricoprirla. Lo sguardo si posa su dettagli minimi — un bottone slacciato, una porta lasciata socchiusa — e ogni gesto diventa indizio.

L’immagine, firmata da Gino Sgreva, accompagna questa visione con una luce che non nasconde ma abbraccia, come se ogni scena venisse filtrata da un ricordo che non vuole essere nostalgico, solo sincero.

Arriva in sordina, come accade nei momenti autentici: Magnani che, appena tornata dall’Oscar, dice alle donne che la festeggiano: «Come ce l’ho fatta io, ce la potete fa’ tutte» .

È una frase che sembra scolpita nella pietra. Non è incoraggiamento da manifesto: è rivendicazione. È la prova che la popolarità, per lei, non ha mai sostituito il mestiere, né la dignità personale.

Perché Anna resta nel cuore

Perché racconta un modello di femminilità ribelle senza gridarlo.
Perché ricorda che la libertà ha un costo, e Magnani lo ha pagato in anticipo, senza chiedere sconti.
Perché Guerritore costruisce un film che non cerca la perfezione: cerca la verità.

E la verità, quando brucia, illumina.

Riflessione personale

Anna non è un biopic, è un incontro.
Uno di quelli in cui si esce con la sensazione che la persona che amavamo da lontano adesso respiri più vicino.
Guerritore offre alla Magnani un rifugio rispettoso, mai devoto, e ci invita a guardare Anna senza il velo del mito, senza la tentazione dell’agiografia.

Un film che non ingabbia, ma apre.
Un film che restituisce voce a una donna che aveva imparato a camminare in un mondo che spesso preferiva vederla silenziosa.
E invece lei, con quella voce bassa e ferrea, ci dice ancora una volta: “Io sono così, e allora?”

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