I figli dell’odio, Cecilia Sala e il ritratto feroce del Medio Oriente

Ci sono libri che si leggono con calma, come si sorseggia un tè. E ce ne sono altri che costringono a trattenere il fiato, perché ogni pagina è una scheggia che colpisce. I figli dell’odio di Cecilia Sala appartiene a questa seconda categoria. Non concede tregua, non offre conforto: ti prende per mano e ti scaraventa dentro un Medio Oriente che somiglia a una ferita mai rimarginata.
Dal carcere di Evin alle strade crivellate di Gaza, dalle voci soffocate di Teheran ai sobborghi di Hebron, Sala attraversa tre fronti che si intrecciano come vene pulsanti: la radicalizzazione di Israele, la distruzione della Palestina, l’umiliazione dell’Iran.
Non racconta “un” conflitto, ma i frammenti di una realtà che sfugge a qualsiasi schema. Le città non sono scenari: sono corpi martoriati, pieni di macerie, polvere e sangue. Le case sventrate diventano quaderni aperti, dove le vite interrotte scrivono ancora le loro ultime frasi.
Il libro è popolato da volti, voci, storie che si incrociano senza mai confondersi. C’è Gershon Baskin, newyorchese che da una vita promuove il dialogo fra israeliani e palestinesi. C’è la madre che non dorme al pensiero che, quarant’anni dopo, qualcuno possa ancora immaginare deportazioni su base razziale. C’è Samih, ragazzo palestinese cresciuto fra macerie e diffidenza, convinto che l’unico linguaggio possibile sia quello delle armi.
E ci sono i padri, come Faris, che avevano creduto nella diplomazia e ora guardano ai figli sepolti con l’amarezza di chi non è riuscito a trasmettere la speranza. Ogni parola è un contrappunto doloroso: le famiglie divise, i sogni interrotti, i giovani che non conoscono altro destino se non la lotta
Leggere Sala significa sentirsi schiacciati da un senso di impotenza. Non si può rimanere spettatori indifferenti: l’odio di cui parla non è un concetto astratto, ma un’eredità che passa di generazione in generazione. È un vento gelido che soffia dalle pagine, ti entra dentro e lascia un vuoto.
Eppure, dentro questo abisso, emergono lampi di umanità. Come il gatto rosso incontrato a Evin, unico sollievo durante i giorni di prigionia. Un dettaglio apparentemente minore, ma che illumina con forza: anche nell’inferno, può esistere un momento di calore, un respiro che salva.
Cecilia Sala scrive con uno stile che sembra non ammettere soste: incalzante, tagliente, a tratti satirico. Non c’è compiacimento nella descrizione, ma una volontà precisa di scuotere chi legge.
Restano impressi i ragazzi che appendono le foto degli amici ai fucili, i bulldozer che divorano strade, i minori che sfilano striscioni carichi di odio. Sono immagini che si sedimentano e tornano a galla, anche chiudendo il libro.
Le voci dei testimoni, da Ronen Bergman a Imad Abu Awad, si alternano come onde opposte di uno stesso mare in tempesta. Nessuna verità è definitiva, nessuna ragione è completa. È proprio in questo coro dissonante che il libro trova la sua forza: mostrare un mondo dove la pace sembra un miraggio, e dove ogni tentativo di dialogo si frantuma contro muri sempre più alti.
I figli dell’odio non è un libro che offre risposte. È un libro che costringe a guardare, a fare i conti con ciò che si preferirebbe ignorare. Sala ci restituisce un Medio Oriente in cui l’odio è lingua madre, un’eredità che i giovani portano come una seconda pelle.
C’è un passaggio che riassume tutto: “È un circolo di violenza che funziona così: i giovani si arruolano nei gruppi armati, gli israeliani fanno i raid. Gli israeliani fanno i raid, i giovani si arruolano nei gruppi armati”. Una spirale che non ha inizio né fine, ma che inghiotte intere generazioni.
Perché leggerlo? Perché racconta senza filtri. Perché costringe a uscire dalla comfort zone dell’informazione rapida e superficiale. Perché ci ricorda che dietro le notizie, dietro i numeri, ci sono vite concrete, padri che piangono i figli, ragazzi che si fanno eroi loro malgrado, madri che non dormono.
È un libro che pesa nello zaino, come una pietra. Ma è proprio quel peso che ci obbliga a non dimenticare.