Ti stacco il Wi-Fi: anatomia di una generazione connessa e sola

C’erano una volta le porte che sbattevano e i ragazzi che uscivano “fino a tardi”. Oggi, invece, le stanze restano chiuse — ma dall’interno.
La nuova minaccia domestica non è più “Non esci finché non lo dico io!”, ma “Ti stacco il Wi-Fi”. Un gesto minuscolo e terribile, capace di scatenare tempeste emotive che neppure le punizioni di una volta.
È da questa inversione che parte la riflessione di Alberto Pellai e Barbara Tamborini nel loro “Esci da quella stanza”: un invito, più che un titolo, a varcare la soglia non solo fisica ma simbolica di un’adolescenza murata viva dentro uno schermo.
A cambiare non sono stati i figli, scrivono. È cambiato ciò che abbiamo consegnato loro: un universo digitale costruito per tenerli lì dentro, a scrollare, a giocare, a reagire come piccoli topi di laboratorio nutriti a dopamina.
Un tempo l’adolescenza era il tempo della fuga: la prima sigaretta dietro la scuola, la piazza, la musica a volume proibito. Oggi, la ribellione non ha più bisogno di evadere: è già nella camera da letto, con una connessione stabile e un visore acceso.
Il cortile si è spostato nel feed, le sfide nel gaming online, le confidenze nei messaggi vocali.
E in questo spostamento silenzioso, il desiderio di libertà si è tramutato in dipendenza. Non per mancanza di carattere, ma per un meccanismo perfetto, programmato per agganciare e trattenere.
È l’industria della distrazione a dettare legge: la stessa logica che regola la pornografia, i social e i videogame. Tutto si fonda sulla promessa di un appagamento immediato, costante, prevedibile.
Il paradosso è che più i ragazzi restano connessi, più si disconnettono da sé.
I genitori sull’orlo del blackout
Molti genitori non sono “adultescenti” distratti, ma presidi in trincea. Impongono regole, tolgono telefoni, spengono router. Eppure si ritrovano impotenti davanti a un sistema progettato per eluderli.
L’emulazione tra coetanei rende vano ogni divieto.
Essere l’unico senza smartphone, nel 2025, è una condanna sociale, non una misura educativa.
Così si finisce per oscillare tra due estremi: da un lato il genitore “elicottero”, che sorveglia e protegge fino a soffocare; dall’altro lo “spazzaneve”, che appiana ogni ostacolo per paura di perdere l’affetto del figlio.
Entrambi, però, restano fuori da quella stanza, mentre dentro si consuma una lenta desertificazione emotiva.
La tentazione è di colmare ogni vuoto, come se bastasse un parental control o un tempo massimo di utilizzo.
Ma educare non significa monitorare, significa rendere possibile l’assenza.
Significa accettare che un figlio possa sbagliare, uscire, perdersi, tornare.
È un lavoro sporco, faticoso, che richiede tempo e capacità di sopportare la paura.
La responsabilità collettiva
Non è solo questione di famiglia. È un tema politico, sociale, educativo.
Le piattaforme digitali hanno avuto quindici anni di vantaggio sull’infanzia.
Mentre noi discutevamo di “nativi digitali”, loro costruivano algoritmi perfetti per capitalizzare ogni minuto di attenzione.
Ora che cominciamo a contare i danni — ansia, insonnia, isolamento, autolesionismo — fingiamo stupore.
Servono leggi che limitino l’accesso ai social sotto una certa età, come si è fatto con il fumo. Servono scuole capaci di integrare l’educazione digitale nel programma, non di bandirla.
Servono adulti che, prima di predicare disconnessione, imparino a disconnettersi davvero.
Il problema non è il Wi-Fi. È ciò che riempie il vuoto quando lo stacchi.
Perché se dietro una connessione interrotta non c’è una voce che chiama, un volto che aspetta, una strada percorribile, il silenzio diventa solo un’altra forma di isolamento.
Forse non dobbiamo più chiedere ai ragazzi di uscire dalle loro stanze, ma chiederci se noi adulti siamo disposti a entrare nelle loro — non con il codice del router, ma con la pazienza, la presenza, la fatica di esserci davvero.



