Afghanistan: Moda e Oppressione del Corpo Femminile

Il burqa non veste, cancella
Afghanistan e la negazione del corpo: la moda come strumento di sottomissione
“Il corpo delle donne è stato il primo campo di battaglia. Sempre.”
— Fatema Mernissi
Il filo blu dell’obbedienza
Appesi in fila, come fantasmi cuciti col filo blu dell’obbedienza, i burqa di Herat raccontano più di quanto nascondano. Non parlano di religione, né di tradizione: parlano di potere. Di controllo. Di uomini che si illudono di proteggere la propria fragilità barricandola dietro a un tessuto spesso, pesante, inodore.
Nessuna variazione, nessuna libertà. Tutto è standard, tutto è annullato. La moda, intesa come espressione individuale, qui diventa un crimine. Non si tratta di scegliere tra lungo e corto, tra sobrio o vistoso. Si tratta di scegliere se sparire o resistere.
Il corpo come minaccia
In Afghanistan, ciò che inquieta non è la libertà, ma ciò che la rappresenta: il corpo delle donne. Mostrare una caviglia, un ciuffo di capelli, un’espressione — ecco cosa fa paura. Non perché sia osceno, ma perché è vivo. E il potere teme tutto ciò che vive, che si muove, che cambia.
Il burqa non copre, cancella. Non è un capo, è una barriera. Non protegge, imprigiona. È un pezzo di tessuto che diventa gabbia, con la benedizione di chi dice di voler difendere l'onore. Ma l'onore di chi? Delle donne, o dell’ego maschile?
Quando l’identico diventa ideologia
Nella sartoria talebana, la diversità è pericolosa. L’uniformità è la legge. Il burqa deve essere sempre lo stesso perché lo scopo non è vestire, ma rendere invisibile. Le misure? Più piccole è meglio. I ricami? Ininfluenti. L’importante è che non si noti nulla. Che la donna scompaia nella massa, nell’anonimato del blu.
Questo non è un caso isolato. È un progetto culturale. L’oppressione, quando si fa abito, è ancora più efficace: la porti addosso, la respiri, ti ci abitui. La interiorizzi. E finisci per crederci anche tu, per difenderla, per tramandarla.
Ma ogni tanto, un dettaglio si ribella. Un orlo più morbido. Un velo appena trasparente. Un gesto rapido per sollevare la griglia sugli occhi. Piccoli tradimenti della norma. Segnali che sotto quei metri di stoffa non c’è il vuoto, ma resistenza.
Le donne afghane non sono mute. Non sono docili. Alcune sfidano il divieto di studiare, altre creano scuole clandestine. Alcune si rifiutano di indossarlo, altre scrivono. Alcune scappano. Tutte lottano, in silenzio o a gran voce.
Non basta indignarsi
Guardare quella fila di burqa come se fosse un’installazione artistica è troppo facile. Il problema non è il burqa in sé. Il problema è quando è imposto. Quando diventa l’unica opzione. Quando chi lo rifiuta rischia la vita. Quando viene usato per dire: “Tu non conti.”
L’indignazione non basta. Serve ricordare che ogni gesto, anche scegliere un vestito, può essere politico. Che la moda, se privata della libertà, diventa solo un’altra forma di censura.
Che fare allora? Lasciare le afghane al loro destino? O imporre un altro modello, magari occidentale, con la stessa arroganza?
No. Serve qualcosa di più scomodo: ascoltarle. Creare spazi per le loro voci, finanziare la loro istruzione, proteggere le attiviste. E forse, qui da noi, imparare a non banalizzare la libertà che abbiamo. A non darla per scontata.
Perché la vera rivoluzione non è togliere un velo. È restituire la scelta.