🟥 Femminicidio sistemico: In quante ancora dovranno cadere?

Femminicidio sistemico
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Femminicidio sistemico. Se bastassero le parole, saremmo salve da tempo. Ma siamo ancora qui a contare le vittime e le conferenze stampa.

Il femminicidio non è un’emergenza. È un sistema che funziona perfettamente. Perché nasce, cresce e si ripete nella complicità di una cultura che lo tollera, lo giustifica, lo maschera da caso isolato.

Martina Carbonaro aveva 17 anni. È stata uccisa da un ragazzo con cui aveva avuto una relazione. La madre lo aveva accolto in casa. Partecipava alle ricerche fingendosi preoccupato. Uno scenario già visto, già previsto, già tollerato.

Nel frattempo, Giorgia Meloni parla di “svolta culturale”, promette più educazione affettiva, ma non muove un dito per renderla obbligatoria, strutturata, finanziata. I dati dell’Istat parlano chiaro: aumentano le chiamate al numero antiviolenza, ma aumentano anche le morti. Quindi? A cosa serve questo rumore se non cambia nulla?

La cultura non cambia da sola

La retorica del “cambiamo la cultura” è diventata il nuovo mantra dell’impotenza. Si invoca come se bastasse evocarla, come se le scuole si svegliassero un giorno dicendo: “Da oggi parliamo d’amore, di rispetto, di consenso”.

La verità è più scomoda. Le scuole non sono preparate, molte famiglie nemmeno vogliono che se ne parli. Le università formano insegnanti che, se va bene, ricevono mezza giornata di corso sul contrasto alla violenza di genere. E il resto? È lasciato alla buona volontà. Un piano educativo senza risorse è un manifesto senza colla: non si attacca da nessuna parte.

Eppure qualcosa succede. Le studentesse e gli studenti del sud, come quelli di Afragola, portano in piazza i cartelli, fanno domande, chiedono conto. Dicono: “Noi vogliamo imparare ad amare e a farci amare senza paura”. Loro fanno rumore. Più della politica.

La vendetta del patriarcato silenzioso

Il patriarcato moderno non grida più. Sussurra. Dice: “Sarà stato un raptus”, “Ma lei non era chiara”, “Anche le donne uccidono”. Sgretola la verità con l’ironia, con il sospetto, con il vittimismo al maschile. Un patriarcato che si veste da libertà d’espressione, ma che odia la libertà delle donne.

E le istituzioni? Rassicurano. Commissioni, osservatori, task force. Ogni femminicidio è seguito da parole rituali, ma pochissimi provvedimenti reali. E ancora meno finanziamenti.

Non serve una nuova legge. Servono asili, centri antiviolenza stabili, educazione permanente, formazione obbligatoria per magistrati e forze dell’ordine. Servono posti dove una donna può dire “ho paura” e qualcuno la crede, senza chiederle se ha denunciato tre volte o se ha provocato.

Cosa serve davvero

Una svolta non si proclama. Si finanzia. Con soldi veri. E si impone. Con norme vere. Serve:

  • Rendere obbligatoria l’educazione sentimentale in tutte le scuole di ogni ordine e grado.
  • Inserire una formazione specifica e ricorrente per chi lavora nella giustizia, nella sanità, nella polizia.
  • Rifinanziare i centri antiviolenza e i percorsi di fuoriuscita da relazioni abusive.
  • Introdurre protocolli di allontanamento preventivo automatico per partner violenti già segnalati.
  • Aprire un osservatorio indipendente sulle sentenze in materia di femminicidio, per valutarne l’impatto culturale e sociale.

Sono misure concrete, che costano. Ma quanto costa il sangue di una ragazza di 17 anni?

Non rispondete con una diretta Instagram. Non servono piani di comunicazione. Servono decisioni. O continueremo a scrivere articoli come questo, a piangere Martina, Giulia, Giordana, Vanessa, Alessandra. Fino alla prossima.

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