La storia di Charlie Kirk e l'odio a comando

La storia di Charlie Kirk

Il fanatismo non arriva con un colpo secco. Cresce piano, come un’erba cattiva. All’inizio sono parole dette per scherzo, battute da bar. Poi diventano insulti lanciati a caso sui social, frasi che sembrano leggere ma che scavano. Alla fine si trasformano in pugni, coltelli, spari.

La storia di Charlie Kirk, ucciso negli Stati Uniti, non è solo lontana cronaca. È uno specchio. Ci mostra quello che siamo diventati: incapaci di discutere senza urlare, incapaci di ascoltare senza giudicare. Sui social non esistono più sfumature: o sei con me o sei contro di me. Il grigio è sparito, restano solo bianco e nero.

Il problema non riguarda solo l’America. Anche in Italia, ogni tema divisivo si trasforma in guerra di tribù: vaccini, migranti, ambiente, perfino il calcio. Non si discute più, si fa la conta di chi sta “con noi” e chi “contro di noi”. È un vizio che si sta allargando a macchia d’olio, e che rischia di logorare la convivenza civile.

Il fanatico è facile da riconoscere: vive di certezze assolute. L’altro non è più una persona, ma un nemico. E quando una società smette di vedere le persone come persone, il terreno è pronto per la violenza.

E la politica? Invece di spegnere il fuoco, spesso lo alimenta. I leader tollerano i fanatici che stanno dalla loro parte, li coccolano perché fanno comodo. Poi, quando succede una tragedia, arrivano le frasi di rito: “Condanniamo l’odio”. Ma è sempre troppo tardi.

La verità è che l’odio non vive solo nei gesti estremi. Vive nelle nostre parole quotidiane. In quella rabbia che riversiamo nei commenti, nei meme cattivi che condividiamo, negli sfoghi che crediamo innocui. È lì che il fanatismo trova casa.

Forse il punto non è aspettare che la politica cambi. Forse il punto siamo noi. Fermarsi un attimo prima di scrivere un insulto. Decidere che un avversario resta un avversario, non un mostro. Accettare che qualcuno la pensi diversamente senza trasformarlo in un nemico.

Non è buonismo, è sopravvivenza civile. Perché se tutto diventa una guerra, alla fine nessuno vince davvero.

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