L’Abruzzo a Bruxelles, un’andata senza ritorno
i Maria Cattini – Prima di cercare di capire cosa è successo ieri a Bruxelles, quando al Parlamento europeo si sono visti arrivare- per l’ennesima volta- una carovana di politici abruzzesi con la stampa locale al ‘seguito’, proviamo a prendere alcuni esempi concreti dal passato, remoto e recente.
A fine anni ottanta, una simpatica senatrice del partito socialista inveiva contro l’allora Presidente della Giunta che continuava a descrivere pubblicamente l’Abruzzo come «una regione virtuosa che sarebbe presto uscita dal gruppo delle Regioni europee depresse, quelle dell’Obiettivo 1».
«Quel cretino- diceva confidenzialmente la senatrice ai suoi supporter- non si rende conto che senza l’Obiettivo 1, l’Europa ci taglia tutti i fondi straordinari!…». Così, la politica regionale abruzzese cercò di scongiurare il peggio aggiustando i conti, come ogni buon commercialista italiano farebbe con i suoi clienti per evitare lo “scatto di aliquota”, cercando di ridimensionare le virtù economiche della Regione.
Dopo anni di finanziamenti straordinari, per ottenere quegli stessi sussidi, l’Abruzzo si trovò a competere con le regioni della Polonia e degli altri Paesi europei con le economie devastate da cinquant’anni di comunismo. A quel punto non fu più possibile tenere in piedi la sceneggiata. In più, tutti i fondi europei ottenuti per infrastrutture e rilanciare dell’economia finirono, invece, per alimentare fallimentari stipendifici come Parchi Scientifici e Tecnologici, Aziende Regionali per le Information Technologies e quant’altro di inutile sia stato fatto. I fondi sono finiti e l’Abruzzo è più depresso di quando iniziò a ricevere quel fiume di denaro dall’Europa. Di questo risultato, si può dare la colpa alla Commissione Europea?
Pensiamo allo Stadio dell’Acquasanta. Quell’opera, da quasi trent’anni, rappresenta uno dei massimi esempi di monumento allo sperpero di denaro pubblico e all’inettitudine della politica locale. Miliardi di lire prima, milioni di euro poi per costruire uno stadio con gli spalti al contrario. Mentre i progetti continuavano a cambiare e aumentare di costo, i politici promettevano ad ogni elezione l’apertura del nuovo Stadio del Calcio, poi Stadio del Rugby e poi, di nuovo, del Calcio. Se si prendessero i capitoli di spesa con i quali è stata finanziata quell’opera, avremmo il catalogo completo delle più disparate tipologie di fondi pubblici italiani: da quelli della ex cassa dei depositi e prestiti; a quelli dei Mondiali 90; passando per gli immancabili fondi europei; fino agli ultimi aggiustamenti con i fondi della ricostruzione. La somma della spesa finale di quella infrastruttura sportiva potrebbe essere facilmente paragonata ai costi di uno degli stadi che hanno portato la gente a scendere in piazza in Brasile, tanto da preoccupare gli stessi organizzatori del prossimo Campionato Mondiale di calcio. A L’Aquila, invece, per trent’anni, davanti a quell’insostenibile sperpero, non abbiamo mai visto scendere in piazza “popoli delle cariole”, tifoserie o ultrà che denunciassero gli autori di quella colossale presa in giro. Gli aquilani, come il resto degli italiani, è un popolo di rassegnati fatalisti. «Si sa che le cose in Italia vanno così…». Ecco il punto è proprio questo, spiegare in Europa che «in Italia le così vanno così» non è affatto facile.
Anche perché in Europa, più passa il tempo, più appariamo come dei veri marziani, un popolo talmente preso a cercare scappatoie e furbizie che non riesce più neanche a cogliere le vere opportunità. In pratica, continuiamo a prendere in giro solo noi stessi. Come accadde- e arriviamo alle cronache dei nostri giorni- con la storia del ricorso al de minimis che, politici alla ricerca di slogan con i quali vincere le elezioni, volevano a tutti costi trasformare in Zona Franca Urbana. Creando per altro aspettative che superavano anche quest’ultimo strumento straordinario di sgravi fiscali concesso, guarda caso, non più alle regioni ma alle aree depresse delle città metropolitane. Sono stati persi almeno due anni in incomprensioni e fraintendimenti- più o meno costruiti ad arte- tra l’Europa, lo Stato, la Regione e il Comune. Anche allora, i funzionari europei cercavano molto pazientemente di spiegare ai politici locali- più o meno gli stessi che si sono ripresentati ieri con il cappello in mano- che non ci sono dubbi che L’Aquila sia stata colpita da una tragica catastrofe ma l’Europa, attualmente, non ha previsto alcuna azione specifica con la quale intervenire per questa e- eventualmente- per tutte le altre catastrofi naturali che si dovessero abbattere in qualsiasi altra regione europea. Non esiste alcuna straordinarietà che tenga in confronto a questo principio, anche se L’Aquila dovesse essere veramente tra le venti città d’arte d’Europa. (A proposito, smettiamola di spararle così grosse altrimenti qualcuno in Europa potrebbe seriamente cominciare a risentirsi). Sarà auspicabile prevedere piani europei contro le catastrofi per il futuro e iniziare il lunghissimo iter tra gli Stati membri per attivarla. Ma, al momento, facciamocene una ragione: presentarci in Europa chiedendo deroghe- che pur sono state concesse- o di chiudere un occhio per come sono stati utilizzati i fondi “ di fronte l’emergenza” non è possibile. In Europa non siamo in Italia. Per questo la conclusione finale della presidente dell’audizione, la europarlamentare tedesca Ingeborg Grassle, componente dell’Ufficio di Presidenza del gruppo Ppe non poteva che essere tanto severa quanto scontata: «La ricostruzione dell’Aquila è un compito nazionale dell’Italia. Non esiste un diritto alla ricostruzione a livello europeo. Il problema è grave ma lo dovete risolvere voi».
E per questo la realizzazione dei 4.500 alloggi del progetto Case, finanziata con 350 milioni dal Fondi di solidarietà della Ue, è stata bocciata dalla Corte dei Conti europea perché non contemporanea alla tragedia e perché potrebbe portare un vantaggio economico per il Comune, contrario alla logica degli aiuti di Stato. A Bruxelles non siamo ad Italia ’90, quando con quei fondi si costruivano alberghi che, senza aprire un sol giorno, furono trasformati in cliniche private senza che nessuno dicesse nulla, dandosi, casomai, qualche pacca sulla spalla con i proprietari delle cliniche stesse. Oppure in Abruzzo, appunto, dove i governi regionali portano avanti da venti anni, con i fondi europei, il progetto di “cablatura digitale della regione” mentre il nucleo industriale di Pescara- e non il comune di Roccamotrice - è ancora privo collegamenti a fibra ottica. Inoltre, la Corte dei Conti Europea ha valutato l’immancabile sproporzione dei costi dei lavori – il 40% in più- con la media degli altri Paesi europei. Insomma, in Europa non amano fare i furbi ma tantomeno passare per fessi. Prima di ripartire in transumanza verso Bruxelles, l’avranno capito i politici italiani che è finita l’era dei fondi a pioggia? Che in Europa ormai ci conoscono e, fino a prova contraria, non si fidano più dei nostri artifici verbali. Gli stessi con i quali cerchiamo di spacciare lucciole per lanterne, sconti fiscali alle aziende per zone franche, postriboli per cene eleganti e dilapidazione di denaro pubblico per ricostruzione.
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