L'esilio dei terremotati aquilani

terremoto

Ogni volta che mi allontano dall’Aquila si presentano alla mia vista delle immagini che sensibilizzano l’animo e fanno provare una stretta fortissima al cuore. Per qualche attimo provo la sensazione che tutto si fermi, pensieri ed azioni, riflessioni e considerazioni, nel vedere delle persone sole che vagano per le vie, per i sentieri, per le spiagge, senza nessuna meta.

In un attimo realizzo come questi individui siano aquilani, allontanati per scelta o per necessità dalle proprie radici, dalle residenze, dagli affetti personali. Non mi sono mai sbagliata nell’individuarli. È bastato un cenno di saluto, un piccolo sorriso per intavolare un discorso per ascoltare il racconto di quella triste notte del 6 aprile 2009. Una base sismica comune, ma con mille particolari, uno diverso dall’altro.

La sensazione che si percepisce è quella della malinconia, della tristezza, della inquietudine per essere stati abbandonati, discriminati nell’assegnazione delle case di legno. Non si lamentano per l’accoglienza ricevuta, anzi la esaltano e la elogiano con decisione. Ciò non toglie che si sentano quasi esiliati perché lontani dai punti di riferimento abituali. La maggior parte sono avanti negli anni, molti sono single ed altri, per paura, hanno scelto di rimanere lontani, preferendo fare i pendolari per ragioni di lavoro, ma lasciando il resto della famiglia al sicuro, lontana dalle insidie del cratere sismico.

Della loro solitudine si lamentano, si rammaricano, ma non inveiscono contro nessuno e questi atteggiamenti rendono i nostri concittadini ancora più civili e dignitosi. Hanno nella mente e nel cuore un solo pensiero: il ritorno a casa, fra parenti ed amici, anche se le famiglie sono state duramente colpite negli affetti più cari.

Qualcuno di essi conduce per mano il proprio nipotino ed elude diplomaticamente le insistenti domande del bambino che vuole tornare a tutti i costi a casa, all’asilo, tra i propri compagni di gioco, nel proprio ambiente. Ogni giorno le scuse variano. Ogni giorno, con tanta tristezza nel cuore che inumidisce gli occhi, bisogna inventare delle nuove storie per distogliere le attenzioni e i desideri dei bambini che amareggiano interiormente gli “esiliati”, soprattutto perché non sono in condizione di poterli esaudire.

Questi avvenimenti, le figure di queste persone anziane, piegate dal dolore degli avvenimenti, ma non sconfitte nell’orgoglio e nella fierezza degli abruzzesi, mi fanno tornare alla mente alcuni versi di Giovanni Berchet:

“Per entro i fitti popoli,/ lungo i deserti calli,/ sul monte aspro di geli,/ nelle inverdite valli,/ infra le nebbie assidue,/ sotto gli azzurri cieli,/ dove che venga, l’Esule/ sempre ha la patria in cor”.

In questi pochi versi è racchiusa tutta l’inquietudine, tutta l’ansia e tutte le aspettative dei nostri “esuli”. È un vero e proprio problema sociale che impone di trovare delle adeguate soluzioni con la massima urgenza che il caso richiede. Alcuni di essi cominciano a manifestare aspetti dissociativi, altri si sentono depressi, altri abbandonati dalle istituzioni e dalla solidarietà dei propri concittadini, ai quali è stata data una decente ed adeguata sistemazione. Molti, al cospetto di queste considerazioni, manifestano, con insistenza, di voler trovare una nuova sistemazione nelle località che li hanno accolti con calore, rispetto, considerazione umana, favorendone l’inserimento nel tessuto sociale cittadino.

E, così, la nostra città diventerà demograficamente, socialmente e culturalmente sempre più povera, sempre più piccola, con tutte le conseguenze prevedibili ed immaginabili. Forse, sarà il caso che le istituzioni e gli stessi cittadini prendano concretamente atto della situazione, adoperandosi in ogni modo affinché gli “esuli” possano dignitosamente rientrare in “Patria” al più presto possibile.

di Maria Cattini

[tratto da Gli Editoriali del Direttore - IlCapoluogo.it]

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