“Non è vergine, doveva intuire”: la ferita che la sentenza non può sanare

La giustizia ha fatto il suo corso, ma la ferita resta aperta.
La Corte d’Appello di Ancona ha ribaltato l’assoluzione di un uomo di 31 anni, condannandolo per violenza sessuale ai danni di una ragazza allora minorenne.
Eppure, a pesare come macigni, sono le parole scritte nella prima sentenza del Tribunale di Macerata: “Non è vergine, doveva intuire.”
Una frase che non si dimentica, nonostante la verità processuale sia stata ristabilita.
Perché in quella formula non c’è solo un errore di linguaggio: c’è il ritratto fedele di una cultura che ancora pretende di valutare la vita privata di una donna per misurare la gravità della violenza subita.
E quel riflesso antico – il sospetto travestito da logica – rischia di rendere il sistema giudiziario un luogo ostile proprio per chi cerca giustizia.
Il linguaggio che condanna due volte
Dire “non è vergine” non è una constatazione, è un giudizio morale.
E dire “doveva intuire” significa spostare la colpa, insinuando che la vittima avrebbe dovuto prevedere il pericolo, evitare la trappola, comportarsi in modo “più prudente”.
Come se il reato fosse negoziabile, come se la libertà femminile dovesse sempre accompagnarsi a una clausola di responsabilità preventiva.
In questo rovesciamento sottile ma devastante, il banco degli imputati si sposta.
Non è più occupato da chi agisce la violenza, ma da chi la subisce.
È lei a dover dimostrare la sincerità del proprio no, la forza della resistenza, la correttezza dei suoi comportamenti.
E più la sua vita è libera, più il suo dolore viene sospettato.
Una logica che non appartiene al diritto, ma a un codice morale di altri tempi, che la giustizia dovrebbe ormai aver dismesso.
La condanna in appello, pur importante, non basta a cancellare l’impronta culturale di quelle parole.
Perché i linguaggi non si archiviano con i fascicoli: continuano a vivere nelle aule, nelle prassi, nelle convinzioni.
Ogni volta che un giudice parla di “comportamenti ambigui” o di “consenso implicito”, il messaggio è lo stesso: la responsabilità è condivisa, la colpa è sfumata, la verità è negoziabile.
È questo il vero ostacolo al contrasto della violenza: non la mancanza di leggi, ma la persistenza di un immaginario che giustifica chi esercita potere e colpevolizza chi lo subisce.
Perché la violenza, prima ancora che fisica, è culturale.
E si manifesta nelle parole, nei gesti, nelle omissioni di chi giudica.
Non è un caso se tante donne continuano a non denunciare: non per paura della legge, ma per paura del giudizio.
Perché ogni frase come “non è vergine, doveva intuire” è una porta che si chiude in faccia a chi cerca ascolto.Un passo avanti, ma troppo tardi
La sentenza d’appello ristabilisce la giustizia penale, ma non cancella il danno sociale.
Serve altro.
Serve una giustizia che impari a guardare la vittima senza filtri culturali, che riconosca la libertà femminile non come un rischio, ma come un diritto.
Serve – come auspicato – una formazione obbligatoria per magistrati e operatori giudiziari, perché la cultura giuridica non si improvvisa e il linguaggio, quando sbaglia, pesa più di una condanna.
C’è un filo rosso che lega le aule di oggi al processo del Circeo, a Franca Viola, alle battaglie di Tina Lagostena Bassi.
Ogni volta che si dubita della parola di una donna, quel filo si tende di nuovo.
Ogni volta che la si giudica per la sua vita e non per la violenza subita, quel filo si spezza.
Finché una donna dovrà ancora difendere la propria libertà morale prima ancora della propria integrità fisica, non potremo dire di vivere in una civiltà compiuta.
E finché nei tribunali sarà necessario ricordarlo, il diritto continuerà a parlare con una voce che non è ancora la sua.




