Santangelo: In Libia l’Italia deve fare fino in fondo la sua
di Maria Cattini, Linkiesta.it - Dopo l’attentato al nostro console a Bengasi, l’escalation in Mali (di cui ha parlato anche oggi Kofi Annan), la crisi degli ostaggi in Algeria, la stabilizzazione della Libia e dell’intero Maghreb sono tornati di drammatica attualità. Ne parliamo con Salvatore Santangelo, direttore del Centro studi della Fondazione Nuova Italia, esperto di relazioni internazionali e tra gli animatori del sito www.geopolitica.info.
Cominciamo con il ricordare che con la sponda Sud del Mediterraneo, l’Italia ha un interscambio commerciale di 57 miliardi l’anno e che siamo tra i primi partner economici di tutti i Paesi affacciati sul Maghreb. Bastano questi numeri a metterci di fronte alla verità per cui la loro sicurezza è anche la nostra. E questo vale ancor più oggi che ci troviamo davanti a una crisi che investe tutto il Sahel, quella fascia nevralgica che salda le risorse energetiche del Maghreb con quelle minerarie dell’area subsahariana. L’instabilità politica innescata dalle “Primavere arabe” e l’avanzata degli islamisti hanno creato una sorta di buco nero in un’area dove non c’è soltanto il Mali (ormai a tutti gli effetti uno Stato fallito), ma una vasta zona grigia… Quindi, l’Italia ha il compito di “presidiare” attivamente quest’area e in particolare sostenere il processo di stabilizzazione della Nuova Libia.
A tal proposito, tu stesso hai recentemente scritto: “Italia e Libia, nazioni diverse e distanti, ma allo stesso tempo da sempre unite dal Mar Mediterraneo che è il mare della vicinanza”. Puoi parlarci di questo rapporto.
La relazione tra questi due Paesi è strettissima e va oltre al semplice “scambio” energetico. E il 2011 ha rappresentato solo l’ultimo di una lunga serie di insoliti parallelismi nella storia delle popolazioni di queste due terre. Sia Roma che Tripoli hanno conosciuto, in presenza di condizioni estremamente diverse, e sotto forme altrettanto eterogenee, importanti mutamenti politici nel corso della stagione più recente. In particolare la Libia ha affrontato un vero e proprio cambio di regime, con la fine di un pluridecennale sistema di potere antidemocratico e l’avvio di una nuova stagione politico-istituzionale in cui sia il popolo libico, sia l’intera comunità internazionale, hanno riposto grandi aspettative. Il limpido svolgimento della tornata elettorale che nel luglio scorso ha visto i cittadini e le cittadine della Libia scegliere alle urne i propri rappresentati nel ricostituito Parlamento di Tripoli rappresenta l’inequivocabile segnale dell’esito positivo finora ottenuto da un processo di ricostruzione nazionale iniziato poco più di un anno fa. Al pari, la formazione in autunno del governo di Ali Zeidan, il primo, dal 1969, a godere della legittimazione parlamentare e dunque popolare, conferma la corretta prosecuzione di tale processo e del cammino verso la completa pacificazione del Paese. È chiaro che in questo processo ci sono tante ombre ed incognite, ma l’Italia deve fare fino in fondo la sua parte…
Fino al prossimo 28 febbraio a Roma, nel complesso del Vittoriano, sarà ospitata “Anime di materia”, un importante evento culturale promosso da HRS (spin off dell’università di Bologna, attivo in Libia fin dai primi giorni della rivoluzione). Si tratta dell’esposizione delle opere di Ali WakWak, considerato il grande artista libico contemporaneo. Qual è il significato di questa iniziativa a cui anche tu hai fattivamente collaborato…
Innanzitutto va detto che Ali aveva ricevuto offerte per esporre in altre capitali europee, ma ha voluto che il teatro della sua “prima” fosse l’Italia, proprio per ribadire il profondo legame tra i due Paesi. Tra l’altro quello che fino a ieri era solo un evento culturale, oggi anche alla luce dell’attentato contro il nostro console a Bengasi assume il valore di un rinnovato ponte di dialogo tra le due sponde del Mediterraneo e un netto rifiuto delle logiche dell’odio, dell’integralismo e della violenza… Il lavoro di Ali WakWak restituisce “anima alla materia”, trasformando oggetti di morte in bellezza e rinascita. Questo artista si serve del legno e del ferro per raccontare la sua passione, il suo pathos, la sua affezione dell’anima che trova corpo per mezzo della materia. Le sue esperienze, la sua vita in una Nazione attraversata da una storia dolorosa, personale e collettiva, danno ulteriormente forma alla materia raggiungendo un significato ancora più tangibile: uomini, donne e animali fatti di elementi surrogati di guerra. Vita dalla morte, rinascita dalla latenza di pezzi di ferro che hanno urlato distruzione per molto tempo. L’artista si avvale dell’arte quale arma universale e non smette di sognare e sperare, facendo della sua guerra personale una lotta silenziosa. Una mostra assolutamente
a non perdere!
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