Alaska, vertice di ghiaccio, sangue e fame

Il 15 agosto, tra i ghiacci dell’Alaska, due uomini siederanno allo stesso tavolo: Donald Trump e Vladimir Putin. L’Europa resterà fuori dalla stanza, l’Ucraina pure. Ma non sarà solo Kiev a guardare da lontano. Ci sarà anche un popolo invisibile, confinato in un’assenza che puzza di resa: i palestinesi che non imbracciano armi, che non appartengono a milizie, che oggi sopravvivono a pane e acqua, se va bene, mentre le bombe spostano ogni giorno più in là il confine tra vita e morte.
In quell’incontro si discuterà ufficialmente di Ucraina, forse di Iran, di nuovi equilibri globali. Ufficiosamente, si parlerà anche di Medio Oriente, di una “soluzione” che rientri nei disegni della Pax americana e degli Accordi di Abramo rivisitati. Ma il nodo palestinese rischia di essere archiviato come un dettaglio laterale, sacrificato sull’altare di intese che devono piacere a Washington, a Mosca e ai partner arabi moderati. A Gaza, invece, ogni giorno che passa significa altri bambini sotto le macerie, ospedali svuotati, panifici distrutti, acqua razionata come in un assedio medievale.
Trump si presenterà come il negoziatore capace di chiudere guerre in ventiquattro ore. Putin, come il leader che ha riportato Mosca al centro del mondo. Entrambi hanno bisogno di uscire dall’Alaska con un trofeo: il primo per alimentare la propria narrativa da uomo della pace, il secondo per certificare che la Russia non è più un paria. Ma per chi vive a Rafah, a Khan Younis, nei campi profughi di Cisgiordania, questo vertice rischia di essere solo un altro appuntamento in cui la loro esistenza viene discussa senza di loro.
Il paradosso è che i palestinesi civili, quelli che rifiutano la logica armata di Hamas, oggi subiscono una doppia punizione: da un lato la violenza militare israeliana, dall’altro l’ostracismo internazionale che li ha lasciati ostaggio di un gruppo che non li rappresenta più. La narrativa dominante riduce Gaza a un bunker di terroristi, cancellando la quotidianità di insegnanti, pescatori, infermieri che cercano di sopravvivere. In questa rimozione collettiva si consuma il crimine più subdolo: la trasformazione di un intero popolo in un rumore di fondo.
L’Alaska potrebbe essere il momento per rimettere in agenda questa verità: la sicurezza di Israele non può essere costruita sulla denutrizione pianificata di due milioni di persone, né sulla distruzione sistematica delle infrastrutture civili. Se davvero si vuole parlare di “nuovi equilibri”, allora bisogna uscire dalla logica del congelamento del conflitto e avviare un processo che riconosca, ai palestinesi non armati, il diritto elementare di respirare, nutrirsi, curarsi.
Qualcuno dirà che non è il momento, che la priorità è fermare le grandi guerre. È la stessa scusa che ha permesso al mondo di “abituarsi” alle bombe. Ma la fame e la sete non aspettano le agende diplomatiche. La storia insegna che i popoli ignorati diventano il detonatore di nuove crisi.
L’Alaska è lontana da Gaza, ma basterebbe un paragrafo in un comunicato, una clausola vincolante, per dire che la comunità internazionale non ha dimenticato chi non ha armi per difendersi. Se anche questo vertice passerà senza che quella gente venga nominata, allora il ghiaccio che circonda Trump e Putin non sarà freddo quanto il silenzio che avvolge la Striscia.