Quei bravi ragazzi che non vogliono responsabilità

In Italia c’è un tratto comune a tutte le crisi: la capacità collettiva di discutere di qualunque cosa tranne del problema reale. È il nostro sport nazionale, insieme al calcio e alla ricerca spasmodica del colpevole perfetto — purché sia sempre abbastanza lontano da noi.
Il caso dei “bravi ragazzi” che si indignano a comando, che oscillano tra vittimismo generazionale e superiorità morale, è l’ennesimo episodio di questo copione stanco. Da anni celebriamo la retorica dei giovani come “risorsa del Paese”, salvo poi accorgerci che molti, più che risorse, sono sintomi: precarizzati, certo, ma anche assuefatti all’idea di essere spettatori permanenti della propria vita.
Nel dibattito pubblico li abbiamo trasformati in un’entità metafisica: sono brillanti, sfortunati, fragili, arrabbiati, liquidi, resilienti, visionari. Dipende dal talk show della settimana. Manca solo una cosa: verificare se tutte queste teorie abbiano un fondamento o siano solo un modo elegante per non dire che il problema è più semplice e più scomodo: l’Italia si aspetta tutto dai giovani, ma non si aspetta niente da sé stessa.
E loro, comprensibilmente, ricambiano il favore.
Ogni volta che scoppia una discussione sulla generazione under 35, emergono due fazioni identiche nella loro incapacità di fare un passo in più: quelli che li difendono a prescindere (i “genitori del Paese”) e quelli che li accusano a prescindere (i “boomer da tastiera”).
Entrambi sbagliano bersaglio.
La domanda importante non è: “i giovani sono peggiori di ieri?”
La domanda è: “quali incentivi diamo a una generazione perché diventi adulta?”
Il problema è sempre lo stesso: pretendiamo responsabilità senza offrire margini di autonomia, invochiamo sacrifici senza dare prospettive, ricordiamo loro che devono “costruirsi un futuro”, mentre opportunamente dimentichiamo che abbiamo già ipotecato quello stesso futuro, passo dopo passo, deficit dopo deficit.
È un Paese che chiede ai ventenni di essere la soluzione, ma li educa fin dall’infanzia a non essere mai il problema. E così restano sospesi: troppo giovani per contare, troppo adulti per non essere accusati di immobilismo.
Il grande tabù: forse non è solo colpa del sistema
C’è un irritante dovere di sincerità che prima o poi qualcuno dovrà prendersi: non tutti i mali dei giovani dipendono dalla politica, dal mercato del lavoro o dal capitalismo delle piattaforme.
Molti dipendono anche da una disposizione culturale che abbiamo contribuito a plasmare: la preferenza netta per il commentare rispetto al fare.
Oggi tutti hanno un’opinione, ma quasi nessuno si prende la briga di verificare se quell’opinione regga, produca effetti, cambi qualcosa — proprio come accade nel dibattito sterile sulla narrazione dei femminicidi, dove passiamo più tempo a definire le parole corrette che a misurare la realtà delle soluzioni disponibili.
Vale anche per i giovani: li studiamo come fenomeno antropologico, ma raramente li trattiamo come cittadini con agency. Meglio continuare a raccontarli: fa meno male e non richiede investimenti veri.
Non servono eroi, ma adulti — giovani o meno
La verità è che l’Italia non ha bisogno di giovani perfetti, disposti a correggere gli errori accumulati da chi è venuto prima. Ha bisogno, molto più banalmente, di persone che scelgano un ruolo diverso da quello dello spettatore indignato.
Perché un Paese non si salva con le narrazioni — quelle servono solo a farci sembrare migliori mentre restiamo fermi. Si salva con decisioni concrete, verificabili, misurabili.
E questa è l’unica responsabilità che, guarda caso, nessuna generazione può delegare all’altra.




