Vivere più a lungo, vivere meglio: la vera sfida del nostro tempo

vivere vecchiaia

L’idea di spingere l’età fino a soglie che un tempo sembravano fantascienza – 120 anni, talvolta persino 150 – provoca reazioni contrastanti. C’è chi sogna una vecchiaia estesa e piena di possibilità, e chi invece storce il naso immaginando un’esistenza lunghissima ma segnata da limiti fisici e dolori continui. Del resto, basta interrogare i numeri: oggi, nel nostro Paese, chi nasce può aspettarsi mediamente poco più di ottant’anni. Ma a che prezzo arriviamo a quella soglia? La domanda che ritorna, pungente, è sempre la stessa: che vita vive davvero un ottantenne?

Molti ultra-settantenni convivono con acciacchi che rallentano ogni gesto della giornata. In questa fatica quotidiana vediamo riflessa una paura profonda: l’idea di attraversare la soglia dei cento anni stanchi e fragili. Un timore comprensibile, soprattutto quando l’invecchiamento coincide con una serie di malattie che sottraggono libertà, spazio, autonomia.

Eppure fissare un confine netto mette a disagio. In una società dove la cura, il cibo, i servizi sanitari e la qualità della vita hanno alzato l’asticella delle aspettative, considerarsi “fuori tempo” a sessant’anni sembra quasi un’offesa. Un sessantenne oggi è spesso più energico di un quarantenne di trent’anni fa. Un settantenne non accetta l’idea di essere alla fine della partita. Un ottantenne in forma continua a fare progetti, a volte più dei figli.

Il discorso cambia appena si tocca un terreno sensibile: quello in cui l’età non porta solo rughe ma un carico crescente di vulnerabilità. Qui la narrazione collettiva si inceppa. Da un lato c’è la speranza di allungare la vita in salute, dall’altro la consapevolezza che non tutti possono contare su condizioni favorevoli. Non basta mangiare bene e tenersi in movimento: la fortuna e l’eredità biologica continuano ad avere un peso rilevante.

E allora perché dovremmo rassegnarci all’idea che vivere più a lungo significhi soffrire più a lungo? Perché accettare come naturale un declino rapido e inesorabile?
La risposta è che non siamo obbligati a farlo.

Oggi la sfida non è aggiungere anni al calendario, ma riempirli di qualità. Puntare a una longevità che non sia un’estensione dell’agonia ma un tempo ulteriore da abitare con lucidità, movimento, relazioni. Una scommessa ambiziosa, certo, ma non irraggiungibile: modificare lo stile di vita, intervenire in anticipo sulle malattie, ripensare il concetto stesso di “vecchiaia” può cambiare radicalmente la traiettoria di una vita.

La domanda, a questo punto, non è più quanti anni vogliamo raggiungere.
La domanda vera è: che cosa vogliamo farci con quel tempo in più?

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