La Global Sumud Flotilla, crepa nella storia: quando la società civile fa da Stato

Ci sono giornate che cambiano il vocabolario della politica. Non per gli slogan, ma per la carne viva dei fatti. La Global Sumud Flotilla è una di queste: barche leggere, diritti pesanti. Nelle stesse ore in cui la diplomazia invita alla prudenza, la cronaca consegna un’immagine netta: unità navali israeliane intercettano e abbordano la flottiglia a circa 70–75 miglia da Gaza, in pieno mare aperto; Greta Thunberg è tra i fermati; almeno una dozzina di imbarcazioni bloccate. Le piazze si muovono. In Italia i sindacati preparano uno sciopero generale. La politica ondeggia, infastidita. Ma il segnale è partito. È quel tipo di segnale che separa un prima e un dopo.
Mercoledì sera le unità della marina israeliana hanno circondato e salito a bordo di più barche della Sumud, in acque internazionali. I video mostrano attivisti seduti in cerchio con i giubbotti di salvataggio. Gli organizzatori parlano di interferenze alle comunicazioni. Tredici le imbarcazioni fermate nelle prime ore, oltre 40 coinvolte nell’azione complessiva, con circa 500 persone tra attivisti, giuristi e parlamentari. Israele difende il blocco, propone canali “ufficiali” per gli aiuti e definisce la missione un’operazione mediatica. La flottiglia ribatte: rompere l’assedio è un atto politico legittimo.
Nel frattempo, l’Italia si spacca nel giudizio. Il governo chiede di “fermarsi”; si parla di instradare gli aiuti via Cipro e Patriarcato Latino. Antonio Tajani assicura che non verrà usata violenza, che i fermati passeranno da Ashdod e saranno espulsi. Dall’altra parte, CGIL e USB annunciano lo sciopero del 3 ottobre. Le piazze di Napoli, Roma, Torino scaldano i motori.
La fessura legale: chi possiede quel tratto di mare?
Il nodo non è solo politico. È giuridico. La Corte Internazionale di Giustizia nel parere del 19 luglio 2024 ha affermato l’illegittimità della presenza israeliana nei Territori palestinesi occupati e ha ricordato agli Stati l’obbligo di non riconoscere come legali gli effetti di quella situazione. Tradotto: attribuire a Israele prerogative sovrane davanti a Gaza non è un dettaglio tecnico, è una forzatura. Una forzatura che può riflettersi anche sulla narrativa delle acque “israeliane” davanti all’enclave.
Questa fessura legale si somma a un fatto politico: il blocco navale non è un dogma. È una scelta, con responsabilità precise. E se una parte della comunità internazionale lo considera “giustificato”, una fetta crescente di giuristi e organismi lo ritiene incompatibile con obblighi umanitari e con la natura stessa del diritto del mare, specie quando colpisce civili, aiuti, sopravvivenza. La Sumud, nel dubbio, ha deciso di mettere il corpo dove i comunicati non arrivano.
La crepa politica: quando lo Stato arretra e la società copre il vuoto
Qui si apre il punto che brucia. Nel Mediterraneo centrale da anni ONG e flotte civili riempiono lo spazio lasciato dagli Stati. Prima con il soccorso ai naufraghi. Oggi con rotte solidali che sfidano blocchi e burocrazie. Non è romanticismo marinaro. È protezione civile democratica. È l’idea che i diritti non esistono se nessuno li esercita.
La reazione istituzionale, in Italia, è rivelatrice. “Irresponsabili”: parola facile, indirizzata agli attivisti; parola che tradisce più fastidio che visione. Lo vediamo nelle conferenze stampa, negli sbuffi in controluce, nei continui richiami alla “priorità palestinese” come se la priorità non fosse salvare vite e rompere l’eccezione permanente. Intanto, la realtà morde: intercettazioni notturne, trasferimenti ad Ashdod, video con attivisti scortati da militari armati. E un’opinione pubblica che si riorienta.
La flottiglia non è solo 43 barche e una lista passeggeri. È una cornice che rimette l’attenzione sul cuore politico del dossier: assedio, occupazione, responsabilità internazionali. In Europa, da anni, viviamo di “mai più” a orologeria. “Mai più” alle stragi in mare. “Mai più” ai bombardamenti indiscriminati. “Mai più” alla normalizzazione dell’illegale. Poi i fatti smentiscono. Questa dissonanza ha un costo: sfiducia democratica.
La Sumud, con tutte le sue fragilità, dice l’opposto: più. Più controllo dal basso. Più scomodità. Più linee rosse esplicitate. Non salva Gaza. Non può. Ma sposta il discorso pubblico dall’inerzia alla responsabilità. E costringe i governi a parlare chiaro: se dici “pace”, nomina i confini, il diritto, la fine dell’occupazione. Altrimenti è fumo.
Il fastidio che trapela dalle parole di Palazzo Chigi racconta molto. Un potere che non regge il controllo sociale diffuso tende a ridurlo a “cagnara”. Ma il punto è diverso: la società civile sta colmando un vuoto. Lo fa male? Lo fa bene? Intanto lo fa. E ricorda, a chi governa, che lo Stato non è un monologo: è un’orchestra. Senza sezione ritmica—associazioni, sindacati, media indipendenti, reti legali—anche la diplomazia più elegante stona.
La notte degli abbordaggi non è l’epilogo. È la crepa. Da una parte l’idea che l’ordine si difenda sospendendo il diritto. Dall’altra, chi crede che l’ordine nasca dal diritto. In mezzo, l’Europa che non decide. La Sumud—con tutti i suoi limiti—obbliga a scegliere. Non tra guerra e pace dette a bassa voce. Tra legge e eccezione. Tra responsabilità e scaricabarile.