La vita oltre lo schermo: una sfida di civiltà

La vita oltre lo schermo del cellulare

La concentrazione è la risorsa più contesa del nostro tempo. Tutti ne percepiscono la scarsità, pochi riescono a difenderla. Le piattaforme digitali hanno imparato a catturarla, trasformandola in un bene commerciabile, mentre milioni di persone restano intrappolate in un ciclo di notifiche, polemiche e dipendenze. Lamentarsi è diventato lo sport più praticato: lo smartphone viene accusato di rubare tempo, i social di inquinare la mente. Eppure, il numero di ore trascorse davanti a uno schermo continua a crescere: tre, quattro, dieci al giorno.

Non è più soltanto un problema individuale. L’intera economia dell’informazione poggia sulla capacità di drenare attenzione. Un adulto medio tocca lo smartphone migliaia di volte in ventiquattr’ore. Questo comportamento compulsivo non è un’abitudine innocente, ma il risultato di un disegno preciso: estrarre concentrazione e trasformarla in profitto. L’informazione diventa rumore, l’indignazione moneta di scambio.

La logica suggerirebbe strumenti per proteggere la mente, ma chi costruisce device e piattaforme non ha interesse a farlo. Al contrario, ogni minuto catturato è un guadagno. Così l’attenzione, che dovrebbe nutrire creatività e relazioni, viene ridotta a carburante per algoritmi.

L’illusione della connessione

Restare attivi sui social significa non scomparire. È la nuova legge della visibilità: essere dimenticati equivale a svanire. Non stupisce che i comportamenti più premiati siano quelli estremi, polemici, aggressivi. In questo scenario, la connessione diventa un obbligo più che una scelta, mentre l’irreperibilità è percepita come una colpa.

Eppure il prezzo è alto. Ogni ora sottratta a un progetto, a una lettura, a una conversazione, è un investimento perso. Ogni scroll contribuisce a un accumulo di rabbia e distrazione.

C’è poi il conto ecologico, spesso dimenticato. I data center che alimentano social e piattaforme consumano energia come piccole nazioni. Il settore ICT è responsabile di una quota crescente delle emissioni globali. Ogni video, ogni like, ogni interazione digitale porta con sé una carbon footprint che non può più essere ignorata.

La battaglia per conquistare attenzione non divora soltanto tempo ed energie, ma anche risorse del pianeta. La “nuvola” che ospita le nostre vite online è tutt’altro che immateriale: pesa, consuma, inquina.

Una scelta radicale

In questo quadro, ridurre l’uso dei dispositivi non è un vezzo nostalgico né una fuga dal presente. È un atto di resistenza culturale ed ecologica. Significa sottrarre terreno a un meccanismo che trasforma la mente in merce e la concentrazione in profitto. Significa restituire valore a ciò che rischia di scomparire: il tempo, le relazioni, la capacità di pensiero.

Il gesto di disconnettersi, parziale o totale, non appartiene più alla sfera privata. È una decisione politica, un modo per riaffermare la centralità di ciò che conta davvero: leggere, creare, dialogare, vivere.

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