Jannik e la scelta di non esserci: la solitudine dei fuoriclasse

Ci sono notizie che non si leggono, si sentono. Ti arrivano addosso come un colpo di vento improvviso, di quelli che spostano qualcosa dentro.
“No, alla fine Jannik non parteciperà alle fasi finali della Coppa Davis.”
Ecco, basta una riga così per cambiare l’umore di una giornata.
Sì, inutile fingere distacco: mi dispiace. Mi dispiace non vedere in campo l’Alfiere che incendia le partite e, in qualche modo, ci protegge. Ma il punto è che Sinner non è solo un tennista: è una figura che incarna una certa idea di purezza sportiva, quella che non cerca scorciatoie.
Il Tennis non è uno sport di squadra. È un territorio di solitudine, di fantasmi che siedono accanto alla panchina.
Quando scendi in campo non hai nessuno da incolpare, nessun compagno a cui passare la palla.
C’è solo la tua testa, il tuo corpo e la rete davanti.
È uno sport che ti sfianca e ti forma, ti consuma e ti educa. Undici mesi l’anno, settimana dopo settimana, città dopo città.
E dentro questa fatica si incastona la Coppa Davis: una parentesi collettiva in un universo individuale. Una festa bellissima, certo, ma che arriva ogni anno, senza tregua, nel calendario già saturo di chi vive a mille all’ora.
Chi guarda da fuori può pensare che Sinner abbia deluso. Che “poteva farlo per la maglia”.
Ma questa è una lettura corta.
Perché Jannik ha già dato.
Ha dato quando ha ribaltato Djokovic cancellando tre match point e portandoci sull’Olimpo del tennis.
Ha dato quando ha trascinato l’Italia, insieme a Berrettini, a vincere due Davis consecutive — un evento mai accaduto nella nostra storia.
E oggi sceglie di fermarsi non per egoismo, ma per lucidità.
Sinner è il prototipo dell’atleta che non si lascia governare dal consenso. Sa che ogni partita vinta è il frutto di ore di silenzio, allenamenti, privazioni.
E sa che la carriera di un fuoriclasse si costruisce anche sulle rinunce, non solo sui trofei.
Nel nostro Paese il sacrificio è spesso confuso con la devozione. Ma nel Tennis, come nella vita, c’è una forma di coraggio anche nel dire “no”.
Sinner ha scelto di non esserci, e lo ha fatto con la stessa onestà con cui gioca: senza retorica, senza alibi.
Ha preferito restare fedele al percorso che lo ha portato a essere ciò che è.
Quella linea che va dalla terra di Melbourne all’erba di Wimbledon, fino alle notti incandescenti di Torino, non si mantiene da sola.
C’è dentro tutto: il desiderio di migliorarsi, la paura di cadere, la consapevolezza che il tempo non regala seconde occasioni.
E per arrivare ancora più in alto, a volte, serve sottrarsi.
Adesso tocca agli altri.
A Lorenzo Musetti, con la sua eleganza impaziente.
A Flavio Cobolli, giovane e feroce.
A Matteo Berrettini, che di Jannik è stato fratello e doppista.
A Simone Bolelli e Andrea Vavassori, colonne di un doppio che ha già scritto pagine indimenticabili.
È il momento di loro. Di un’Italia che può vincere anche senza la sua stella, perché è proprio questo il segno dei grandi: lasciare un’eredità che continui a brillare anche in assenza.
Prima di giudicare Sinner, ricordiamo.
Ricordiamo Wimbledon, quando l’erba si è inchinata al suo passo.
Ricordiamo Torino, quando ogni colpo era una dichiarazione di guerra al dubbio.
Ricordiamo la calma glaciale con cui ha trasformato la pressione in bellezza.
Ogni impresa di Jannik è il risultato di scelte scomode. E se oggi rinuncia, lo fa perché vuole che domani sia ancora possibile vincere. Non solo per sé, ma per tutti noi che abbiamo imparato a credere in quel sorriso timido e in quella forza silenziosa.
Grazie, Jannik
Per tutto ciò che hai dato, e per ciò che continuerai a dare anche restando fuori.
Perché un Campione non si giudica dalle presenze, ma dalla coerenza.
E Sinner, nel dire “no”, ci ha ricordato che la vera grandezza non urla, sceglie.



