I Figli di WhatsApp all’Università si perdono tra punteggiatura e sintassi

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Errori di grammatica, punteggiatura sbagliata, povertà di lessico e poche letture.

I “Figli di WhatsAp” si trovano all’università con abilità linguistiche indebolite, esponendo una lacuna nell’istruzione formale.

In un’epoca dominata dalle comunicazioni digitali, l’impatto della scrittura informale su piattaforme come WhatsApp e i social media sta emergendo come una sfida significativa per gli studenti universitari italiani.

Scrivono, costantemente. Nessuna generazione ha mai scritto tanto quanto i ventenni di oggi: messaggi brevi, spezzettati, arricchiti di emoticon, frasi ispirate dal momento, sollecitate dall’interlocutore. Quando però devono dare forma a un testo complesso, si arenano. Anche gli studenti universitari. Si perdono nel mare della punteggiatura, tentennano nella sintassi.

È il risultato di uno studio che ha coinvolto 2.137 studenti di 45 atenei italiani. A guidarlo Nicola Grandi, ordinario di glottologia e linguistica a Bologna, capofila del progetto condotto insieme agli atenei di Pisa, Macerata e all’università per stranieri di Perugia. 

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I risultati sconcertanti di Univers-Ita

Lo studio, denominato Univers-Ita, è stato avviato in risposta alle preoccupazioni sollevate da 600 professori riguardo alle carenze linguistiche degli studenti universitari. Ogni partecipante è stato incaricato di produrre un testo formale di 250-500 parole, narrando la propria esperienza durante il lockdown del 2021. I risultati hanno rivelato una media di 20 errori per ogni elaborato, metà dei quali riguardava la punteggiatura.

La punteggiatura, questa sconosciuta

Una delle criticità evidenziate dallo studio riguarda l’uso improprio della punteggiatura. Testi carenti di sintassi, coerenza, scelte lessicali. E l’uso di punti e virgole ne è la manifestazione più evidente: «D’altronde la punteggiatura non è, come spesso si insegna, solo un fatto grafico, ha un forte valore testuale, cioè scandisce l’organizzazione del testo. Ed è risultata molto deficitaria». La mancanza di abilità nella sua corretta applicazione è un riflesso dell’abitudine alla scrittura informale, caratterizzata da una sintassi limitata e una struttura argomentativa frammentata.

Leggere poco, scrivere male

La ricerca ha anche evidenziato una correlazione tra la scarsa abitudine alla lettura e le competenze di scrittura. Solo il 17,5% del campione legge più di dieci libri all’anno, mentre il 52% si limita a cinque volumi in 12 mesi. Inoltre, gli studenti di area scientifica mostrano una maggiore competenza nella redazione di elaborati rispetto agli umanisti, evidenziando disparità anche tra le regioni italiane.

Nessuna sorpresa invece per quanto riguarda la provenienza: chi viene dal liceo se la cava meglio con le parole. E tra questi chi conosce lingue antiche fa in media 2,46 errori in meno. Da notare poi che il numero di strafalcioni commessi cala progressivamente passando da studenti provenienti dalla classe socioeconomica bassa a quelli di medio alta, per poi aumentare nuovamente tra chi appartiene ai ceti più agiati.

Scuola e università: insegnare a usare una lingua

Quasi tutti — otto su dieci — dichiarano però di sentirsi abbastanza o molto sicuri nello scrivere. Senza però saper distinguere i contesti. «La grammatica che usiamo per redigere una tesi di laurea è diversa da quella che usiamo quando digitiamo un messaggio su WhatsApp. Ma saper usare una lingua significa proprio questo: compiere scelte adeguate alla situazione comunicativa. Che è quello che scuola e università dovrebbero insegnare, anche se quasi mai lo fanno».

La scrittura informale dei social

L’evoluzione della tecnologia ha introdotto uno scenario in cui la scrittura informale, una volta inesistente, assume un ruolo predominante. Solo 14 dei 62 corsi di laurea mappati sono dedicati a rafforzare le abilità di scrittura, sottolineando la necessità di una revisione approfondita dei programmi accademici.

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